Le recenti turbolenze delle borse cinesi hanno sollevato preoccupazione negli Stati Uniti non meno che in Europa, dove le fluttuazioni dei mercati finanziari sono state repentine e violente. Da tempo, ormai, fra Washington e Pechino si è instaurato un rapporto di mutua dipendenza che, come spesso accade in tali occasioni, assume a volte i contorni della mutua vulnerabilità. Dalla fine degli anni Novanta/inizio dei Duemila, gli investitori cinesi si sono dimostrati più che lieti di assorbire larghe fette del debito pubblico USA; al settembre 2014, gli operatori cinesi possedevano il 10% circa del debito pubblico statunitense, quota che li collocava la terzo posto fra i creditori della Casa Bianca subito dopo il sistema della sicurezza sociale (Social Security Trust Fund) e la Federal Reserve, il cui peso è aumentato a causa dei massicci interventi di quantitative easing effettuati dopo il 2007. Parallelamente, nello stesso periodo, le famiglie e le imprese statunitensi si sono dimostrate più che liete di assorbire ampie porzioni dei beni prodotti dalle industrie cinesi, con l’effetto di proiettare il disavanzo delle partite correnti da 315 miliardi di dollari nel 2012, a 318 miliardi nel 2013 e a 343 miliardi nel 2014.
Gli eventi delle ultime settimane sollevano, tuttavia, interrogativi riguardo alla sostenibilità di una tale situazione. Da tempo, a Washington, da più parti si sottolinea l’opportunità di procedere ad un drastico ridimensionamento dell’esposizione verso la Cina, talora presentata in termini di minaccia strategica. Queste richieste emergono con più forza in occasione dei ricorrenti momenti di crisi che punteggiano i rapporti con Pechino ma ora le ripetute svalutazioni dello yuan sembrano aggiungere un senso di particolare urgenza. Il timore è che il deprezzamento della valuta cinese, penalizzando le esportazioni statunitensi, finisca per aggravare una posizione già percepita come vulnerabile. Il dibattito sui potenziali effetti dell’accordo commerciale transpacifico (Trans-Pacific Partnership), attualmente in discussione di fronte al Congresso, si alimenta degli stessi fattori e traduce le stesse preoccupazioni, soprattutto rispetto al futuro di settore manifatturiero. A questo proposito, vale la pena di rilevare come, secondo le ultime analisi della Federal Reserve, il comparto manifatturiero statunitense risulti già in stato di recessione tecnica anche a causa della forza eccessiva del dollaro sui mercati internazionali.
Quali scenari aprono, quindi, le scelte di Pechino? Senza dubbio, da qualche tempo la ‘locomotiva cinese’ ha smesso di tirare come nel passato, e sollevano perplessità le dichiarazioni ufficiali di un tasso annuo di crescita intorno al 7% quando, a detta di vari osservatori, uno compreso fra il 2 e il 3% sarebbe ben più credibile. Il settore delle costruzioni attraversa ancora una fase di stanca e vari indicatori fisici (volume di merci trasportate, consumo di energia elettrica, dinamica dei prezzi alla produzione…) confermano i segni di rallentamento in atto. Su questo sfondo, le recenti svalutazioni possono rappresentare un modo per sostenere la produzione nazionale sia sui mercati esteri sia su quello interno. Il fatto che oggi, sul mercato interno, i consumi stiano crescendo – seppur di poco – più degli investimenti concorre a corroborare questa osservazione e appare coerente con l’obiettivo indicato dal Presidente Xi Jinping di rendere quella cinese una ‘società moderatamente benestante‘ (moderately well-off society) entro il 2021, centenario della costituzione del Partito comunista. Ciò, ovviamente, nell’ipotesi che Washington e Pechino continuino anche in futuro a trovare, nella loro mutua dipendenza, le ragioni di uno stare inseme che sinora sembra essersi tradotto in benefici per entrambi.
A cura di Gianluca Pastori
Docente nella Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore