L’iperinflazione sperimentata nel biennio 2022-2023 si mangerà non solo i consumi, ma anche i risparmi delle famiglie italiane, con un onere di 6.338 euro a nucleo familiare. E’ quanto emerge da una analisi dell’Ufficio studi della CGIA di Mestre che calcola esclusivamente l’impatto inflazione sui conti correnti. In primo luogo si è ipotizzato che i 1.152 miliardi di euro presenti nei conti correnti bancari non abbiano registrato alcuna variazione nel biennio in esame. In secondo luogo, dopo aver stimato che nel biennio l’inflazione crescerà di quasi il 15% (+8,1% l’anno scorso e +6,1% quest’anno), ha calcolato la perdita di potere d’acquisto dei nostri risparmi. L’esito emerso da questa elaborazione è “spaventoso”: praticamente ci troviamo di fronte a una patrimoniale da quasi 164 miliardi di euro che a ogni singolo nucleo familiare “costerà” mediamente 6.338 euro (senza considerare i rincari subiti dai conti correnti).
A distanza di oltre 30 anni, molti ricordano ancora con grande sdegno il prelievo straordinario del 6 per mille applicato dall’allora Governo Amato sui conti correnti degli italiani. Nella notte tra il 9 e il 10 luglio del 1992, infatti, quella misura costò alle famiglie italiane 5.250 miliardi di lire, ovvero 2,7 miliardi di euro. Attualizzando questo importo, il prelievo si attesterebbe a 5,3 miliardi di euro; praticamente un “sacrificio” economico 31 volte inferiore a quello prodotto dall’inflazione.
Le province più penalizzate
A livello territoriale, il costo più salato lo soffriranno le famiglie delle regioni più ricche: in Trentino Alto Adige la perdita di potere di acquisto medio sarà pari a 9.471 euro, in Lombardia di 7.533, in Emilia Romagna di 7.261 e in Veneto di 7.253. A livello provinciale, invece, la “patrimoniale” colpirà, in particolar modo, le famiglie residenti a Bolzano, che subiranno un prelievo medio di 10.542 euro. Seguono Milano con 8.500, Trento con 8.461, Lecco con 8.201 e Treviso con 7.948. Le famiglie meno “colpite”, invece, saranno quelle ubicate in provincia di Siracusa con 3.842 euro, Trapani con 3.595 e Crotone con 3.130.
Le banche devono alzare i tassi sui depositi
Con un tasso di riferimento della BCE attestatosi al 2% dallo scorso dicembre, sul livello che avevamo nel febbraio del 2009, che effetti economici ha prodotto a un ipotetico correntista? Se 14 anni fa il tasso attivo era dello 0,75 per cento, 2 mesi fa si è attestato allo 0,12 per cento, con una riduzione per il risparmiatore dello 0,63 per cento. In altre parole, a fronte di 10 mila euro depositati nel conto corrente, rispetto al 2009 ci troviamo con 63 euro in meno in un anno. Se, come sostengono molti esperti, entro la fine del 2023 il tasso salisse al 4 per cento, raggiungendo lo stesso livello toccato tra il luglio 2007 e il giugno 2008, sui nostri ipotetici 10 mila euro depositati in banca perderemmo 107 euro. Non si tratta di cifre importanti, tuttavia se le banche tornassero a riconoscere un leggero aumento dei tassi attivi sulle somme libere depositate nei conti correnti, la clientela potrebbe almeno coprire i costi fissi. Cosa, invece, che è stata praticata dagli istituti sulle somme vincolate, anche se, molto spesso, per tantissimi correntisti districarsi tra un “mare” di offerte è estremamente difficile (dei costi nascosti sui conti correnti abbiamo parlato qui). Uno sforzo economico, quello che dovrebbero sostenere le banche se ritoccassero all’insù i tassi sui risparmi non vincolati, tranquillamente sostenibile, visto che nell’ultimo anno le cose sono andate molto bene: i cinque più importanti istituti nazionali hanno chiuso il 2022 con utili netti pari a 12,7 miliardi. Un aumento del 65 per cento rispetto al 2021.